Quando un architetto di Milano mi ha chiamata per parlare di “roba strana”
Tre mesi fa ho ricevuto una mail da uno studio di architettura milanese. Non faccio nomi, non do coordinate GPS, ma diciamo che è uno di quegli studi dove non entri se non hai almeno due progetti da sette cifre in cantiere.
L’oggetto della mail era laconico: “Progetto 2026 – Serve strategia comunicazione. Disponibile?”
Salgo in treno da Parma pensando al solito “condominio fighissimo in Classe A”. Invece no. Sala riunioni con vista Duomo, schermo da 80 pollici e una frase:
“È il nostro primo edificio residenziale BREEAM. E non abbiamo idea di come raccontarlo.”
BREEAM.
L’ho sentito nominare due volte in vita mia, sempre in contesti dove giravano fondi internazionali e consulenti con la cravatta da 300 euro.
Non roba da appartamenti per famiglie normali, insomma.
“Perché BREEAM?” ho chiesto. “Perché la Classe A non basta più,” mi hanno risposto.
E lì ho capito che c’era qualcosa che mi ero persa.
Due settimane di studio
Tornata a Parma, ho cominciato a studiare.
Ho letto manuali, guardato webinar di gente entusiasta che parlava di “approcci olistici” e “criteri multiparametrici”.
E ho capito una cosa: mentre noi abbiamo trasformato la Classe A nella bandiera della virtù edilizia, c’è chi ha già spostato l’asticella più in alto, in silenzio, ma con metodo.
A Milano, tra Porta Nuova e CityLife, più di duecento edifici hanno certificazioni ambientali come LEED, BREEAM o WELL.
Non villette da famiglie col cane, ma torri direzionali e campus aziendali.
La domanda che mi ha punto è stata semplice: perché il residenziale no?
Cosa hanno capito loro
BREEAM nasce nel Regno Unito nel 1990 e valuta le prestazioni degli edifici rispetto a una serie di requisiti ambientali, assegnando valutazioni che vanno da Pass a Outstanding, passando per Good, Very Good ed Excellent.
Fin qui, sembra l’ennesimo bollino da attaccare sulla brochure.
La differenza sostanziale è questa:
L’APE conta solo i kilowattora che bruci per scaldarti d’inverno. BREEAM guarda tutto il resto che ti eri dimenticato esistesse: acqua, materiali, comfort, luce, rumore, rifiuti, trasporti, biodiversità. È come un check-up completo dal medico, mentre la Classe A è solo la misurazione della pressione.
I numeri che contano
Qui ho smesso di prendere appunti educati e ho cominciato a scrivere in maiuscolo sul mio quaderno.
Gli edifici certificati BREEAM costano meno da gestire, questo lo sapevamo già. Risparmio energetico, meno manutenzione, tutte cose sensate. Ma il vero game-changer non ha niente a che fare con le bollette.
Gli edifici certificati BREEAM hanno accesso a un mercato di investitori completamente diverso.
Fondi immobiliari, investitori istituzionali, società che gestiscono patrimoni miliardari. Per loro, un edificio certificatonon è solo più sostenibile: è un asset documentato, con rischi misurabili e costi prevedibili.
Tradotto: se hai BREEAM, vendi a gente che ha più soldi e che è disposta a pagare di più.
Gli esempi italiani (esistono davvero)
Ho fatto una lista mentre studiavo: Bodio Center, Torre Beta di AXA a San Donato, Centro Sarca, Katanè a Catania, Università Statale di Milano, Palazzo Bo a Padova e Joint Research Centre di Ispra (Varese).
Quasi tutti direzionali o commerciali. Tranne uno.
Isola del Gran Sasso, Abruzzo. Un paese di tremila anime. Tre villette a schiera costruite con pietra locale recuperata. Il primo progetto residenziale in Italia certificato BREEAM.
Se BREEAM arriva a Isola del Gran Sasso, non è più roba da archistar con budget infiniti. Significa che qualcuno ha capito che può avere senso anche per il residenziale normale.
La domanda da 22.500 euro
Sì, ho fatto i conti. Su un progetto da 500.000 €, tra consulenza e certificazione parliamo di circa 22.500 €.
Non pochi, ma nemmeno follia se si guarda al ciclo di vita dell’edificio: risparmio energetico -19%, emissioni ridotte, maggiore comfort… bla bla bla.
E poi quella statistica curiosa:
“Gli occupanti lavorano o vivono il 14% meglio.”
Sulla produttività degli utenti ho i miei dubbi (come la misuri? il numero di pause caffè?), ma il concetto regge: se stai bene in un ambiente, ci vivi meglio e sei disposto a pagare di più per starci.
La strategia comunicativa più sbagliata (quindi perfetta)
Dopo settimane di studio, ci siamo seduti coi milanesi per parlare di strategia.
“Dimenticatevi i render patinati,” ho detto. “Comunichiamo BREEAM come una spesa inutile.”
Silenzio glaciale. Poi uno: “Vi pagano per questo?” “Certo.”
L’idea era raccontare il progetto come un elenco di costi invisibili:
“Abbiamo speso 50 mila euro per certificare cose che non vedrai mai.”
Qualità dell’aria senza display, materiali più costosi che sembrano identici, finestre “normali” studiate tre mesi per farti risparmiare 600 euro di bolletta.
Noi vendiamo la noia documentata in un mercato che vive di sogni renderizzati. Sembra follia, ma è onestà. E l’onestà, nel real estate, è la vera novità.
Quello che ho capito
Studiare BREEAM mi ha fatto capire che il mercato immobiliare si sta dividendo in due:
da una parte le case “normali”, Classe A e pannelli fotovoltaici sul tetto;
dall’altra gli edifici documentati, certificati da terze parti indipendenti, che parlano la lingua degli investitori istituzionali.
La differenza non è filosofica. È economica.
Oggi vale forse +10%, domani potrebbe valere +30%. Perché il mercato premia la certezza documentata e penalizza il rischio non misurabile.
Il progetto dello studio milanese non sarà il più bello, ma sarà quello con i dati in regola. E in certi bilanci, i dati contano più dei render.
Parma, OkCasa e un possibile primo esperimento
Tornata a Parma, l’idea mi ronzava in testa.
Qui non abbiamo CityLife, ma zone di rigenerazione urbana e imprese che costruiscono bene. Manca solo la voglia di documentarlo meglio.
Con OkCasa, dove progettazione, comunicazione e vendita convivono sotto lo stesso tetto, ho deciso di parlare con gli impresari.
Le reazioni? Prevedibili:
“Ma costa troppo.” “Il mercato parmigiano non lo assorbe.”
E io: “Vogliamo continuare a vendere case o vogliamo cominciare a vendere asset documentati?”
E ora? Stiamo studiando se un progetto pilota da 10 unità possa sostenere una certificazione BREEAM (circa 2.500–3.000 €/unità). Matematicamente regge. Culturalmente è una sfida.
Perché vendere “l’invisibile” richiede fiducia e una comunicazione nuova. Il problema non sono i numeri. È culturale.
Far capire che quella certificazione invisibile vale quanto, anzi più, dei render patinati.
Conclusione
Non sto dicendo che domani mattina certificheremo tutto. Sto dicendo che chi ci arriva prima avrà un vantaggio competitivo enorme.
Quando sarà moda, il premio si ridurrà. Ma chi lo fa ora, mentre sembra un errore, avrà già vinto.
P.S.
Quel progetto milanese volerà verso il nord Europa, ma la sua strategia comunicativa resta: raccontare la verità tecnica con ironia brutale.
Perché forse la sostenibilità non ha bisogno di slogan, ma di trasparenza. E se funziona lì, la porteremo anche qui.
Parma non è Milano, né Londra, né Berlino. Ma potrebbe essere la prima città media italiana a dire:
“Abbiamo speso 30 mila euro per cose che non si vedono. Ed è stata la migliore scelta di sempre.”
Se hai un progetto e vuoi capire se BREEAM ha senso per te, scrivici.
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